mercoledì 21 settembre 2011

WePub




Quando un paio di mesi fa scrissi che gran parte delle mie energie era stata assorbita da un nuovo progetto, be', non mentivo: è con grande entusiasmo dunque che vi presento WePub, una nuova casa editrice nativa digitale. Nuova perché appena nata (anzi, a dirla tutta nascerà ufficialmente lunedì 26 settembre), ma anche perché innovativa: WePub sarà infatti la prima casa editrice italiana a costruire il suo catalogo esclusivamente tramite scouting online diretto.

Per i dettagli dell’operazione vi rimando a mezzogiorno in punto di lunedì prossimo, quando terminerà il countdown sul sito ufficiale e la casa editrice aprirà i battenti. Per il momento vi basti sapere che:
  1. No, non si tratta di editoria a pagamento
  2. Sì, le vostre opere inedite ci interessano
  3. Pubblicheremo esclusivamente in formato digitale. Ebook, insomma. 
Vi ho incuriositi? Lo spero, almeno un po’. Per chi volesse seguirci sui social network, ecco i link:
Twitter: @wepub_you

Buona serata a tutti, ci sentiamo lunedì per un brindisi virtuale (ma se qualcuno volesse brindare dal vivo, per una birra siamo sempre disponibili!).

giovedì 28 luglio 2011

Ogni stop è solo un altro start

Durante queste vacanze estive ho intenzione di prendere una decisione riguardo al futuro del blog, che non aggiorno ormai da molte settimane.
Come ben sapete, mantenere un blog richiede impegno, costanza e, alla base di tutto, tanta motivazione: negli ultimi tempi il primo è stato assorbito da altri progetti (uno dei quali spero di potervi annunciare a breve, magari su queste pagine, magari altrove, so solo che esiste ed è una bella cosa), la seconda non fa esattamente parte delle mie virtù, la terza è clamorosamente mancata.
Nel frattempo, auguro buone vacanze a chi le farà e buon tutto a tutti gli altri: per quanto mi riguarda, mi ritirerò anche quest'anno ai piedi delle Dolomiti per la consueta settimana a base di trekking in alta quota, sagre di paese, speck, canederli e notti sotto il piumone in pieno agosto.
A presto.


sabato 7 maggio 2011

Perché non fate un film?

Quando quei mattacchioni di Finzioni hanno tweetato la notizia sono rimasto sbalordito: dei malati di mente hanno girato un film ispirato a Perché non ballate?, racconto-capolavoro di Carver tratto da Di cosa parliamo quando parliamo d'amore (o da Principianti, versione "uncut" della citata raccolta: io per esempio la versione tagliuzzata da Gordon Lish non l'ho mai letta).
La storia: sbattuto fuori casa dalla moglie (antefatto sottointeso), un uomo si trasferisce in giardino, dove accatasta tutta la sua roba e la mette in vendita. Una giovane coppia di passaggio si ferma a dare un'occhiata e, dopo qualche drink in compagnia dell'uomo, si mette a ballare, per poi addormentarsi sul letto appena acquistato.
Tutto qua: un "tutto qua" comune nei racconti di Carver, salvo poi stare a rimuginarci sopra per settimane.
Ora, ditemi voi com'è possibile cavarci fuori un intero film. Beh, l'hanno fatto. E sembra pure piuttosto bene. Titolo: Everything Must Go. Protagonista: Will Ferrell. Il trailer:

lunedì 18 aprile 2011

Stayin' Alive

Gli Asciugoni Regina assorbono il doppio
del vostro tempo libero!
Chiedo scusa per la prolungata latitanza: stavolta non è dovuta a pigrizia, ma a una quantità spropositata di lavoro e progetti vari che assorbono tipo Asciugoni Regina il mio poco tempo libero.
Portate pazienza, conto di rimettermi in carreggiata quanto prima.
Buona settimana a tutti e mi raccomando, non fate i bravi, che è noioso.

sabato 26 marzo 2011

William Faulkner, Mentre morivo: la rat-censione

William Faulkner
Mentre morivo
Titolo originale: As I Lay Dying
Edizione: Gli Adelphi 
232 pagine, € 9

Addie Bundren sta morendo: riuniti intorno al suo capezzale, il marito Anse e i cinque figli si preparano a trasportarne la salma nella lontana Jefferson, contea natale della donna, rispettando così il suo desiderio di essere sepolta nella sua terra. Caricata la bara su uno sgangherato carro che sembra sempre sul punto di cadere a pezzi, i Bundren si mettono in viaggio. Ma il carro non è l’unico a rischiare di sgretolarsi: l’odissea verso Jefferson, funestata da un diluvio che mette fuori uso strade e ponti e accompagnata dall’odore di morte che emana il cadavere, diviene un catalizzatore di sventure e fa esplodere tensioni e contraddizioni che lacerano i personaggi, ognuno depositario di un doloroso segreto, ognuno corroso da sopiti rancori e inconfessabili desideri.


Mentre morivo è un romanzo dalla complessità a tratti disarmante: al di là del continuo ricorso a elementi simbolici che sicuramente ho colto solo in minima parte (a partire dalla scelta del titolo, a quanto pare un esplicito riferimento all’Odissea omerica), è il modo in cui è strutturato a rappresentare una sfida per il lettore. Come scrive Alfredo Giuliani in quarta di copertina della presente edizione, La struttura e lo stile di Mentre morivo esercitano un fascino, a volte esasperante, soltanto se il lettore accetta la sfida di mettere in atto tutta la sua disponibilità percettiva. Bisogna cogliere insieme l’assurdo, il comico, il simbolico, l’inconcluso, la ridicolaggine che incombe sulla tragedia, l’enigma, che non si risolve. 

Su un canovaccio di base semplice e lineare si innesta appunto una complessa struttura narrativa che fa del flusso di coscienza e del continuo intrecciarsi di monologhi il mezzo con cui imprigionare il lettore nelle maglie del racconto. I pensieri dei personaggi, le loro paure, i loro malcelati e meschini obiettivi personali, giungono a noi a briglia sciolta, senza filtro alcuno: ci investono con la stessa forza con cui il fiume spazza via il ponte che dovrebbbe permettere ai Bundren di giungere a Jefferson prima che il cadavere di Addie inizi ad attirare uno stormo di famelici avvoltoi. Le difficoltà linguistiche, se così possiamo definirle, non finiscono qui: i Bundren sono infatti rozzi bifolchi, e come tali parlano e pensano. Prendiamo Vardaman, il bambino cui viene sbattuta in faccia la morte. Mettetevi nei suoi panni: come potrebbe reagire? Come potrebbe elaborare lo shock? Come potrebbe esprimere a parole l’orrore di cui è testimone? (Mia madre è un pesce)

Ma vediamo di conoscere meglio i Bundren. Partendo proprio da Addie, colei che ha sacrificato se stessa a un uomo che non ha mai amato e a cui ha dato quattro figli perché così doveva essere, perché questo è ciò che ci si aspettava da lei. Il quinto, Jewel, emblematicamente prediletto, è frutto di un tradimento mai confessato. L’unico monologo che la vede protagonista è un’appassionata e dolorosa difesa “linguistica” della donna, il cui sangue si fonde con la terra, la sola in grado di identificare le cose e il dolore col loro vero nome tanto da non aver alcun bisogno di nominarli; all’estremo opposto l’egocentrismo maschile, che si spinge fino al punto di dover inventare dei termini per tentare di dare forma a ciò che non conosce. Ne riporto uno stralcio:

Così mi presi Anse. E quando mi resi conto di avere Cash, mi resi conto che vivere era terribile e che quella era la risposta. Fu allora che capii che le parole non servono a nulla; che le parole non corrispondono mai neanche a quello che tantano di dire. Quando nacque mi resi conto che maternità era stata inventata da qualcuno che doveva trovarle una parola perché a chi i bambini li ha avuti non gli importava nulla se c’era una parola o no. Mi resi conto che paura era stata inventata da qualcuno che non aveva mai avuto paura; orgoglio, da qualcuno che di orgoglio non ne aveva mai avuto… Anche lui [Cash] aveva una parola. Amore, lo chiamava. Ma era da un pezzo che avevo fatto l’abitudine alle parole. Sapevo benissimo che quella parola era come tutte le altre: semplicemente una forma per riempire un vuoto; che quando fosse venuto il momento, non ci sarebbe satto bisogno di una parola, per quello, più che per l’orgoglio o per la paura.
C'è Anse, il capofamiglia inetto e cocciuto come un mulo, che metterà a rischio l’incolumità di tutta la famiglia pur di tenere fede alla promessa di seppellire la moglie nel suo paese natio. Una promessa che è più un ingombrante fardello di cui liberarsi a ogni costo che un doloroso pegno d’amore.

C’è Darl, il reduce di guerra, l'unico a essere uscito dalla contea di Yoknapatawpha. Darl è istruito, Darl è diverso. A lui Faulkner affida lo spazio più ampio e le rifessioni più lucide. Una lucidità che, consapevole della totale assurdità della situazione, sfocia ben presto in un tragicomico distacco e nella follia, reale o presunta. Perché nessuno di noi è del tutto pazzo e nessuno del tutto normale finché il resto della gente lo convince ad andare in un senso o nell’altro. E’ come se non fosse tanto quello che uno fa, ma com’è che lo guarda la maggioranza di noi quando lo fa.

E Cash, che asse dopo asse, chiodo dopo chiodo, costruisce pazientemente la bara in cui riposerà il corpo della madre, proprio sotto i suoi occhi, secondo il suo volere. Il rumore della sua sega accompagna tutta la prima parte del racconto, come un messaggero di morte imminente che incombe sulla casa.

Ci sono Jewel, il mezzosangue orgoglioso e ribelle, e Dewey Dell, unica femmina, rimasta precocemente (e segretamente) incinta, desiderosa di liberarsi al più presto del fardello che porta in grembo, senza peraltro avere la minima idea di come sia possibile farlo. E, infine, il piccolo Vardaman, davanti ai cui occhi l’orrore assume la sua forma più cruda e tangibile, come le viscere di un pesce.

Ognuno di loro ci racconta una storia che diviene tante storie: la storia di un dolore condiviso e le storie di singoli segreti meschini ed egoistici. Ognuno di loro calpesta una terra spietata che non offre riparo né consolazione a chi nasce sconfitto. Ognuno di loro è a suo modo testimone e narratore di un’odissea in cui il tragico si fonde col comico, l’assurdo col grottesco.

E poi c’è la scrittura di Faulkner, mimetica e viscerale. Una scrittura densa, ad ampie pennellate, a tinte forti, accese, che dipingono sulla pagina immagini di rara potenza drammatica ed evocativa. Non ho avuto modo di confrontarmi con il testo originale, ma mi sembra che la difficile sfida rappresentata dalla traduzione sia stata affrontata da Mario Materassi con una cura e una passione encomiabili.

Dicevo nel post precedente che mi sarebbe piaciuto riuscire a trasmettere non tanto ciò che Mentre morivo mi ha comunicato, quanto il modo in cui l’ha fatto. Mi rendo conto di essermi posto un obiettivo un po’ troppo ambizioso: spero di avervi invogliato, anche solo incuriosito, a scoprire un romanzo straordinario e un autore di cui sono certo che tornerò a parlare presto su queste pagine.

domenica 20 marzo 2011

Coming Soon

Solita storia: lo scrivo qui, pubblicamente, così potrete insultarmi se non manterrò l'impegno preso.
In settimana mi dedicherò alle rat-censioni di due romanzi che, per un motivo o per l'altro e a livelli assai differenti, mi hanno colpito molto.
Il primo, che avevo già avuto il piacere di leggere in lingua originale, è I vermi conquistatori, di Brian Keene. Dato che non lo rat-censii la prima volta, credo sia giusto farlo ora.
Che Faulkner sarebbe senza una pipa?
La seconda rat-censione in programma è più complicata: Mentre morivo mi ha aperto un mondo, quello di William Faulkner e della sua narrativa, che ho intenzione di esplorare in lungo e in largo. Sarebbe bello poterlo fare insieme su queste pagine, in modo molto terra-terra eh, che non ho certo pretese di confrontarmi con la vastissima e dottissima critica della sua opera. Mi accontenterei di riuscire a trasmettervi, anche solo parzialmente, non tanto ciò che questo romanzo mi ha comunicato, quanto il modo in cui l'ha fatto: sarebbe già una grande soddisfazione.
Ah, dimenticavo: qualche giorno fa ho visto Black Swan. Devo ricredermi: Natalie Portman sa recitare. Ma la Jennifer Lawrence di Winter's Bone è altra cosa.
See you soon.

martedì 8 marzo 2011

Le Cronache del Ratto emerso: Ebook Lab Italia, day 2

Come molti di voi sanno, venerdì 4 marzo ho partecipato alla seconda giornata di Ebook Lab Italia. Lungi dal limitarsi al piccolo recinto di casa nostra, la mostra-convegno organizzata da Simplicissimus Book Farm ha gettato uno sguardo a 360° su conquiste più o meno acquisite e prospettive future dell’eBook e su un mercato in cui tutti hanno qualcosa da dire, ma in cui nessuno, o quasi, dispone ancora di solide certezze.

Al di là del minimo comune denominatore rappresentato ovviamente dall’ebook, mi sembra che, all’interno di un panorama alquanto variegato, ciò che abbbia davvero accomunato esperienze e testimonianze anche molto distanti tra loro siano stati la passione e l’entusiasmo dimostrati da tutti i partecipanti. Nelle nebbie dell’ebook si avanza un po’ a tentoni, saggiando il terreno, ma lo si fa insieme, con tanta voglia di esplorare e sperimentare. Quella voglia di esplorare e sperimentare che ancora fa difetto all’approccio di molta “grande” editoria, spesso arroccata in una strenua difesa dello status quo, quello status quo che le ha permesso di monopolizzare mercato e librerie. Ma, per citare le parole del Duca (autore di un intervento originale, spontaneo e, soprattutto, opportuno: per chi non ha avuto la fortuna di seguirlo, qui e qui due video non ufficiali), a Libroshima gli scaffali delle librerie scompaiono, le leggi della fisica (se in uno scaffale ci stanno 100 libri, per quanto tu spinga non ce ne entreranno mai 200) non valgono più e gli autori si autopubblicano. Come competere con questa massa informe di presuntuosi scribacchini da 4 soldi? Con la qualità.

Ecco, se dovessi individuare un punto su cui tutti, ma proprio tutti (beh, magari non proprio TUTTI) si sono trovati d’accordo, è la necessita di offrire qualità.

In un mercato in cui, privato del supporto fisico, il valore percepito del contenuto è vertiginosamente precipitato, non ha senso pompare artificialmente i prezzi alti o imbrigliare la diffusione dei contenuti tramite medievali cinturoni di castità. Gli editori devono capire che, per stabilire il prezzo dell’ebook, il termine di paragone non è quello del cartaceo. Il termine di paragone è la diffusione gratuita. Il termine di paragone è zero. Se il guadagno proveniente dalla singola “copia” diminuisce, come rimediare? Con la qualità. Qualità dei contenuti, ma anche del servizio offerto e dei servizi correlati alla vendita del prodotto.

Per citare Maria Cecilia Averame, aka Miss Quintadicopertina, “l’editore digitale deve essere impeccabile, identificabile, fortemente caratterizzato, differente”. Il suo nome e il suo marchio devono ispirare fiducia nel lettore, devono essere sinonimo di qualità: solo così potrà imporsi in un mercato in cui uno scribacchino qualunque può autopubblicarsi su Amazon, vendere il proprio mediocre romanzetto a 1 euro e guadagnarne 2.000 al mese.

Ma sto divagando, cerchiamo di andare con ordine. Cosa si diceva? Ah sì, Ebook Lab Italia :-)
La giornata è stata inaugurata da Paola Dubini, docente di economia all’Università Bocconi di Milano, che si è concentrata sui modelli di business per quotidiani e periodici digitali. In sostanza, si è parlato di piattaforme, servizi correlati, modalità di accesso ai contenuti e della necessità per l’editore di non replicare sul digitale la filiera della produzione cartacea. Niente di particolarmente nuovo, c’è da dire che in 20 minuti non è che si potesse approfondire più di tanto un tema tanto vasto e dispersivo.

Più stimolante e ricco di spunti l’intervento di Samford Forte, direttore di Flat World Knowledge, innovativo progetto di editoria digitale applicata alla scolastica il cui scopo è di mettere a disposizione degli studenti materiali didattici di qualità, selezionati da docenti di comprovata esperienza, dai quali sia possibile attingere per modellare una serie di “dispense” digitali personalizzate. Semplificando al massimo: io, docente, preparo i materiali e li carico sul portale. Tu, studente, accedi al portale, cerchi ciò che ti serve, componi la tua dispensa, aggiungi annotazioni, commenti, scarichi il tutto in epub o, tramite il print on demand, ti fai stampare la tua copia personalizzata. Parola d’ordine: Openess. Le 4 R dell’Openess: Reuse, Redistribute, Revise, Remix. Oltre all’estrema praticità del tutto, i benefici in termini economici sarebbero enormi: lo studente potrebbe infatti disporre di materiali costantemente aggiornati, non trovandosi quindi costretto ad acquistare costose nuove edizioni anno dopo anno. Nonostante le richieste di chiarimento da parte del pubblico, non mi è ancora ben chiara la sostenibilità economica di tutta la faccenda: si è parlato di generici contributi statali (beati gli yankee) e di sponsor ma, dettagli a parte, Flat World Knowledge è un progetto che merita massimo supporto e attenzione.

Dopo il coffee break è giunto finalmente il momento del Duca: inutile dire che, al di là di qualche comprensibile esitazione del relatore dovuta all’emozione del momento, addentrarsi nei territori postapocalittici di Libroshima è stata una delizia per tutti gli affezionati lettori di Baionette Librarie, ma non solo. Oltre a un paio di repentine e dolorose stilettate nei confronti di Fazi e Mondadori, dei quali è stato aspramente contestato l’atteggiamento sprezzante nei confronti del lettore (anzi, del consumatore), l’analisi comparata del mercato dell’ebook in America e in Italia è stata come sempre puntuale e documentata. Niente aria fritta insomma: il Duca ha decisamente colpito nel segno. Se desiderate approfondire gli argomenti trattati nel suo intervento, potete farlo qui.

Il resto della mattinata è stato dedicato alla “forma” dell’eBook, al layout insomma. Ma non pensiate che ci si sia limitati a parlare di margini, interlinea e “polliciaggio” :-). Oh no. Abbiamo avuto l’onore di assistere alla lezione, anzi, alla Lectio Magistralis, di Enrico Tallone, poeta del font, cantore dell’arte tipografica. La sua retrospettiva su storia ed evoluzione del carattere tipografico, durante la quale sono state coniate alcune immortali perle di saggezza che nessuno di noi dimenticherà tanto facilmente, si è conclusa con gli applausi a scena aperta di tutta la platea. Grazie Enrico. E grazie anche a Matteo Balocco, Davide Casali e Vladimir Carrer: i vostri interventi sono stati davvero preziosi.

Una menzione particolare per il workshop in pausa pranzo tenuto da Maria Cecilia Averame, la già citata mente dietro al progetto Quintadicopertina. Come detto su Twitter (a proposito: l'idea del Twitter Wall sulla parete opposta al palco è stata geniale) avrebbe meritato uno spazio più ampio nella sala principale. E' stato comunque un piacere assistere al suo intervento, quantomeno per rendersi conto della serietà e della passione alla base del progetto.

Subito dopo l’abbuffata, la conferenza tenuta da Bill McCoy, direttore esecutivo di IDPF, ha fatto registrare il pienone: la dimostrazione delle potenzialità di ePub3 ha calamitato l’attenzione di tutti, e a buona ragione. L’evoluzione dello standard aperto per gli ebook porta grandi novità e miglioramenti, dalla gestione dinamica del layout al supporto per audio (anche sincronizzato al testo) e video, dalla gestione avanzata dei font al supporto ad HTML 5, e molto altro. Per citare un mio stesso tweet: ePub3 promette importanti passi avanti su tutta la linea. Gli editori sapranno sfruttarne le potenzialità?

Dopo un intervento piuttosto tecnico dedicato ai repertori e alle banche dati digitali, sul quale si sono espressi Simonetta Pillon di Informazioni Editoriali e Federico Meschini della De Montfort University, è stato il turno di salire sul palco per Michael Dahan, CEO di Bookeen, Antonio Bosio di Samsung e Alessandro Salsi di ASUS. E sarebbe potuta essere una preziosa occasione per gettare uno sguardo su progetti e prospettive di tre grandi attori del mercato, se, al di là di qualche piccola chicca, non si fossero limitati a spiattellare dati di vendita, quote di mercato conquistate e specifiche tecniche dei loro gioiellini. Tutta roba facilmente reperibile in rete. Mi pare che la platea non abbia gradito granché: peccato davvero per l’occasione sprecata.

La giornata si è infine chiusa con le domande rivolte da Antonio Dini, giornalista del Sole24Ore, a Bruno Mari di Giunti e Giovanni Biondi, capo dipartimento del MIUR, collegato in videoconferenza via Skype. Si è parlato di prospettive digitali per l’editoria scolastica: ma qui iniziavo a essere stanco, e i ricordi sono piuttosto annebbiati. Chiedo scusa per il coverage incompleto.

E insomma, in conclusione: da Ebook Lab Italia mi aspettavo tanto, ho avuto molto più di quanto sperassi. Ancora grazie a tutti: agli organizzatori per la serietà e la professionalità dimostrate, ai relatori per la competenza e la disponibilità, al pubblico per la partecipazione attiva ed entusiasta, al buffet per le ricche libagioni, agli amici ritrovati e alle persone conosciute, al pullmino dell’albergo per avermi portato clandestinamente in stazione, a Twitter per averci permesso di diffondere il Verbo. Arrivederci al prossimo anno.

giovedì 17 febbraio 2011

The Troll Hunter (Trolljegeren): la rat-censione

Trolljegeren
Anno: 2010
Regia e sceneggiatura: André Øvredal
Paese: Norvegia


Tre studenti dell’Università di Volda si mettono sulle tracce di Hans, un bracconiere sospettato di avere ucciso degli orsi senza il necessario permesso. Nonostante i reiterati rifiuti del cacciatore di farsi intervistare, i giovani non demordono e pedinano Hans durante una battuta di caccia notturna in una foresta. Ciò che scoprono va al di là di ogni immaginazione: le prede di Hans non sono orsi. Sono giganteschi troll. Già: i troll esistono davvero e il governo norvegese li tiene rinchiusi all’interno di riserve naturali disseminate per tutto il Paese. Ora però, in seguito a un'epidemia di rabbia, i troll hanno iniziato a sconfinare, causando non pochi problemi all’ignara popolazione e altrettanti imbarazzi alla TSS (Troll Security Service), che cerca disperatamente di camuffarne gli ingenti danni sotto le spoglie di disastri naturali o incursioni di orsi particolarmente molesti e affamati. L’unico modo per fermare i troll è ucciderli. L’unico modo per ucciderli è pietrificarli o farli esplodere. L’unico modo per pietrificarli o farli esplodere è sfruttare l’unico loro punto debole: l’estrema sensibilità alla luce solare. Armato di potentissime lampade a raggi ultravioletti, Hans e la sua improvvisata ciurma partono alla caccia dei troll impazziti...

Come avrete intuito, il segreto per apprezzare Trolljegeren è non prenderlo troppo sul serio: non aspettatevi agghiaccianti scene da infarto, arti mozzati o sbudellamenti con gran profusione di liquidi corporei.
Lo spirito di questo bizzarro mockumentary in salsa norvegese è altro: pur con un’impostazione di fondo seriosa, che fa il verso ai più blasonati esponenti del genere, la caccia al troll in presa diretta di Hans e dei tre studentelli non risparmia risvolti quasi comici. Tragicomico? Semiserio? Sinceramente non saprei proprio come incasellare un film del genere. Facciamo così: non incaselliamolo affatto. Prendiamolo per quello che è. Ecco, se affrontato con questo spirito Trolljegeren saprà regalarvi 90 minuti di onesto intrattenimento che, pur poggiando su una sceneggiatura non proprio solida e inattaccabile, può anche contare su qualche asso nella manica.
La realizzazione tecnica, innanzitutto. Per essere un film a “basso” budget (si parla se non sbaglio di un paio di milioni di dollari o giù di lì) gli effetti speciali sono sorprendenti. E qui non si parla di mostrare/non mostrare o di semitenebre perenni, tutt’altro: i troll sono quasi sempre inquadrati in primissimo piano e a tutta figura, anche in piena luce. Ovvio, non pensate di trovarvi di fronte alle armate di Mordor, ma vi assicuro che, considerati i mezzi a disposizione, siamo di fronte a un piccolo miracolo tecnico.
Notevoli anche certi scenari, ma immagino non sia particolarmente difficile imbattersi in paesaggi suggestivi lungo i fiordi o nel gelido e selvaggio entroterra norvegese.
Di contro, oltre ad alcune palesi ingenuità nella sceneggiatura, la recitazione degli attori è ai minimi termini, peccato tutto sommato veniale in un film che scimmiotta un documentario amatoriale.
E insomma, ripeto, prendete Trolljegeren per quello che è: intrattenimento non sofisticato ma nemmeno banale, leggero ma non per forza scontato. Accompagnatelo con birra e pop corn e saprà ricompensarvi con una piacevole serata di caccia grossa. Molto grossa. 


lunedì 14 febbraio 2011

Due eBook is megl' che uan

Breve segnalazione dal pianeta eBook: per festeggiare l'apertura del proprio store digitale, Minimum Fax (una delle poche case editrici di un certo spessore a non essersi piegata al giogo del DRM) regalerà una copia di Crazy Friend. Io e Philip Dick, raccolta di racconti e saggi firmati da Jonathan Lethem, a tutti coloro che acquisteranno un eBook entro domenica 20 febbraio.

Nonostante la relativa esiguità in termini numerici, il catalogo digitale della casa editrice romana annovera tra le sue fila qualche cult come Una cosa divertente che non farò mai più (€ 9,90) di David Foster Wallace, Il grande Gatsby di Francis S. Fitzgerald (€ 5,90) e, rimanendo entro i confini nostrani, Lo spazio sfinito di Tommaso Pincio (€ 8,90). Per tenere fede al mio impegno di leggere più narrativa italiana ho optato per quest’ultimo, che fa già bella mostra di sé nel mio reader insieme al libro di Lethem.

Nel clima di pressapochismo e malcelato boicottaggio che contraddistingue i primi, traballanti passi dell'editoria nostrana nella transizione al digitale fa piacere incappare in iniziative come questa: perché non approfittarne? 

giovedì 10 febbraio 2011

Il Re Ratto a Ebook Lab Italia

A quanto pare la mia richiesta di accredito a Ebook Lab Italia è andata a buon fine: venerdì 3 marzo andrò quindi a Rimini per partecipare alla seconda giornata di incontri dedicati al magico mondo del libro digitale, un mondo dove la gente lancia papere e palloni e niente è come sembra.

Il programma è assai ricco e variegato. I primi due incontri della mattinata saranno dedicati ai modelli di business per quotidiani e periodici digitali e per la scolastica: particolarmente degno di nota il secondo, tenuto da Sanford Forte, direttore di Flat World Knowledge, società che si occupa di creare un catalogo online di libri di testo curati da insegnanti autorevoli e qualificati, in costante aggiornamento e diffusi gratuitamente online su licenza Creative Commons. Un progetto decisamente ambizioso.

Dopo il coffee break, ecco il piatto forte della giornata: Libroshima: cronache del dopo eBook, conferenza tenuta dal Duca Carraronan in persona! La domanda che ci poniamo tutti è: indosserà il suo famigerato Pickelhaube? A quanto si dice no, ma la speranza è l’ultima a morire. Vi aggiornerò in tempo reale, con tanto di immagini in presa diretta.

Nel resto della mattinata ci si addentrerà nella "fisicità" del prodotto eBook, con due conferenze dedicate al carattere tipografico tra tradizione e rivoluzione digitale e a layout e gestalt del libro elettronico. Capite? Gestalt, mica pugnette!

Campari e vino bianco,
uno dei miei aperitivi preferiti
Alle 13.40 seguirò con molto interesse l'intervento di Maria Cecilia Averame di Quintadicopertina, neonata casa editrice digitale che si è già ritagliata la sua piccola fetta di mercato, che parlerà appunto di Prospettive per e-publishers indipendenti.

Seguiranno conferenze e workshop sui temi più disparati, dalle nuove possibilità offerte dallo standard ePub 3 ai device prossimi venturi, fino all’attesissimo e immancabile aperitivo di fine giornata.

Insomma, gli spunti non mancheranno di certo: le possibilità offerte dall’ebook mi affascinano e incuriosiscono, spero che il convegno si riveli un’opportunità di reale e costruttivo approfondimento. Le premesse e promesse sono più che buone, vedremo se saranno mantenute: a risentirci su queste pagine per un approfondito resoconto della giornata.

lunedì 7 febbraio 2011

Il ratto si è rattizzato

Lasciate che i ratti vengano a me!
Eh sì, lo sapete come va, periodicamente mi rintano e da queste parti non succede granché.
Non è che non abbia rosicchiato niente eh, anzi.
Mi sono sparato ben tre film candidati all'Oscar: con Toy Story 3 e Inception, visti tempo fa, siamo a cinque su boh, otto? Ecco, so che mi manca quello dei Coen. E Black Swan e, se non erro, The Social Network.
Vedrò sicuramente True Grit, anche se è un remake, e sapete come la penso a riguardo. Ma, che diamine, i Coen sono sempre i Coen.
Ma torniamo ai tre.

127 Hours ha un problema di fondo: è Boyleano dalla prima all'ultima inquadratura, troppo patinato e sopra le righe per lasciare qualcosa allo spettatore. Beninteso, buon film eh, avercene così: ma insomma, oltre a ciò che si vede c'è poco. E poi c'è una scena che mi ha dato il voltastomaco: considerati gli ettolitri di sangue e le tonnellate di budella che mi sono sorbito in questi anni, beh, chi l'avrebbe detto? Comunque guardatelo eh, quantomeno per vedere come un regista capace riesca ad avvincere lo spettatore ambientando un'ora e mezza di film in una sola, microscopica location. Vero senor Cortés?
Winter's Bone è meraviglioso. Davvero, non c'è una cosa, una sola, che non funzioni. Siamo agli antipodi rispetto al film di Boyle: qui tutto è sussurrato, profondo, viscerale. Come direbbe il buon Elvezio (qui la sua recensione, abbondante ed esaustiva come sempre): perturbante. Non credo avrà grande fortuna al botteghino, a meno che non vinca la statuetta. Shame on you se vi lascerete sfuggire uno dei migliori film degli ultimi anni.
The King's Speech sta nel mezzo. Un mezzo very english. Misurato ed elegante, ma non per questo superficiale e scontato, il film di Tom Hooper (al suo secondo lungometraggio dopo l'ottimo The Damned United) si gioca tutto sull'interpretazione di un Colin Firth in stato di grazia. E' il classico film da Oscar, nell'accezione più positiva del termine.

Nelle ultime due settimane ho letto poco e male.
Ho attaccato e mollato subito 1977 di Peace: semplicemente, non era il suo momento. E' lì che aspetta.
Ho finalmente affrontato Leiber con Nostra signora delle tenebre. Sì, mi è piaciuto. Lo ammetto, mi ha un po' deluso: visto il consenso unanime (anzi, l'entusiastica riverenza) che riscuote tra gli aficionados, beh, mi sarei aspettato qualcosina di più. Forse è troppo raffinato e intellettuale per i miei rozzi gusti da ratto.
Sto leggendo Mentre morivo, ma lo sto facendo nel modo, anzi, nei tempi sbagliati: la sera a letto. E io la sera a letto sono capace di abbioccarmi in 5 minuti netti. Pessima scelta davvero: il romanzo di Faulkner merita ben altra attenzione. Quindi sì, nel weekend mi metto in poltrona e lo ricomincio da capo.

Ho in programma un aggiornamento del vecchio post Ok, il prezzo è giusto?, per fare il punto sulla (desolante) situazione del mercato dell'eBook in Italia. Come vi sarete accorti, l'offerta inizia a essere accettabile in termini numerici, ma il prezzo medio degli eBook è oscenamente alto e la concorrenza tra gli store è al momento pura utopia.
Insomma, c'è poco da stare allegri, anche se siamo solo agli inizi e la situazione non potrà che migliorare. Qualcosina di interessante c'è già.
Spero di riuscire ad andare a Rimini per Ebook Lab Italia, almeno per un giorno: venerdì 4 interverrà anche il Duca!

Vi sarete accorti che la Tana ha cambiato faccia. Non so se mi piace, né se resterà così a lungo. Che ve ne pare?

Ah, quasi dimenticavo: pare che domenica pioverà. Non smetterà più: loro stanno arrivando...

domenica 23 gennaio 2011

Omar Di Monopoli, La legge di Fonzi: la rat-censione

Omar Di Monopoli
La legge di Fonzi
Isbn edizioni
298 pagine, € 11
ebook: € 6,99

Nella torrida e polverosa afa d’agosto una notizia appena sussurrata squarcia il torpore che avvolge gli abitanti di Monte Svevo: Nando Pentecoste detto Manicomio ha saldato il suo conto con la giustizia e sta tornando a casa. Non è affatto una buona notizia per il paese, quattro case cresciute all’ombra degli stabilimenti industriali di Taranto e Brindisi, dove un tempo la Sacra Corona Unita regnava indisturbata. Oggi Monte Svevo si regge su un delicato ed effimero equilibrio fondato sull’omertà, sulla piccola corruzione e sul malaffare locale. Basterebbe una parola per far crollare tutto. Magari da parte di si è fatto cinque anni di galera per coprire l’omicidio di un ispettore che, ficcato il naso nella fogna degli affari locali, aveva scoperto fino a che punto puzzassero. Nando Manicomio sta tornando a casa per riscuotere ciò che gli spetta: nessuno a Monte Svevo ha idea di quanto siano alti gli interessi da pagare…


Tra i buoni propositi per il 2011 avevo sbandierato l’intenzione di dedicare più spazio agli autori nostrani: un po’ perché, per un motivo o per l’altro, li ho sempre (colpevolmente?) snobbati, un po’ per pura e semplice curiosità campanilistica. Voglio toccare con mano il loro valore, verificare da me a che punto è la nostra scrittura. Sono stato fortunato: la mia incursione nella “nuova” narrativa italiana non sarebbe potuta iniziare meglio.

Terzo capitolo della trilogia “orecchiette western” (della quale non ho letto i primi 2 capitoli, ma a questo punto non mi resta altro che procurarmeli), La legge di Fonzi è un romanzo che merita di essere letto per svariate ragioni. Su tutte lo splendido lavoro dell’autore sul linguaggio, un curioso mix tra il parlato pugliese e un italiano pazientemente cesellato, fatto di termini e aggettivi ricercati, a tratti desueti: superato un certo straniamento iniziale, il risultato è sorprendente efficace.

E così, se da un lato lu governu maledetto a noialtri povera gente ce lo mette sempre ‘ngulo, dall’altro l’arsura cocente di fine agosto ammantava la distesa di pietra brulla punteggiata dai cespugli di mirto. C’è chi impone un ordine raggiando un’occhiata grigiocupa e chi pone una domanda labbreggiado coni biancastri di saliva. Ci imbattiamo in un’anziana nerovestita come una malombra e in un uomo lungocrinito. Fissiamo sguardi fessurati e occhi che sono dischi di pietra lesionata. I personaggi zufolano, deambulano, circumnavigano, scapicollano, lumano in tralice. Tendiamo l’orecchio al rantolo di una terra riarsa che aspetta ormai da mesi, invano, una goccia di pioggia, ammiriamo un arido paesaggio torchiato dalla canicola che falsa le architetture, mentre intorno a noi ondeggia la campagna funerea, gialla di stoppie, nera di restucce bruciate.

La mancanza di punteggiatura (virgolette, trattini) a separare i dialoghi (spesso, come già detto, in dialetto pugliese) dal resto contribuisce alla felice commistione tra i registri linguistici. Come dicevo sopra, se inizialmente il lettore si ritroverà spiazzato da qualche accostamento particolarmente azzardato, questo “effettto collaterale” è destinato a svanire ben presto: ciò che rimane è solo ottima scrittura.

Scrittura che, comunque, non è mai autocompiaciuta, fine a se stessa, ma spesso e volentieri al servizio di un’aspra critica sociale che non risparmia nessuno: alla fine della fiera (anzi, della giostra medievale) gli abitanti di Monte Svevo non ne escono bene, anzi. Tra piccoli truffatori, ladruncoli da quatro soldi, untuosi uomini di Chiesa, funzionari corrotti e un sindaco con le mani grondanti di sangue, per l’autore c’è solo l’imbarazzo della scelta. Scrittura che si vela spesso di una nota malinconica, scaturita dall’amore per una terra tanto dura quanto affascinante, una terra che reca su di sé le cicatrici del malaffare e dell’abusivismo selvaggio:

Qualche chilometro più giù, a est, s’intravedeva ancora la sagoma sguarnita di un cavalcavia, imprigionata tra due isolati terrapieni inguainati dalla gramigna: come un enorme sauro che avesse a lungo errato prima di crollare sfinito in mezzo al niente, quella struttura incompiuta invecchiava laggiù da più di un trentennio, a imperituro monito di ogni promessa passata, presente e futura di sviluppo della zona.

Spesso le parole più dure vengono messe direttamente in bocca ai personaggi, parole dalle quali traspare un senso di cupa e dolorosa rassegnazione a uno status quo visto come ormai immutabile, il vero male che avvelena Monte Svevo e, per estensione, il Sud del Paese, ma non solo, che tanto in Italia nessuno è colpevole per sempre, questo un paese senza memoria è

Vagnò, lo richiamò la donna mentre riprendeva la via della porta.  
Cosa? Si girò a domandare ancora il ragazzo.
No’ ti fa’ fottere.
Da chi?
Da questo posto. Sennò la stessa fine nostra fai: aspettando all’infinito che qualcuno si decide a darci indietro quello che forse noi stessi per primi abbiamo voluto farci arrùbbare…

E insomma, ok, è scritto bene, ok, c’è anche la critica sociale… ma sotto sotto, la storia c’è? Sì, la storia c’è, ed è pure una bella storia, vissuta da personaggi dai tratti volutamente esasperati ma non per questo non credibili, anzi… che si sa, di questi tempi il confine tra caricatura e realtà è piuttosto labile.

Si diceva dei personaggi: su tutti Giùanni Pentecoste detto Fonzi, la cui spettrale presenza si aggira per tutto il romanzo, eroe/antieroe che sembra uscito dritto dritto dal selvaggio West. E poi il truffatore Skùppeta, l’obeso commissario di polizia (ispirato, per ammissione dello stesso Di Monopoli, a Wiggum dei Simpson), la vecchia con un guardaroba fatto solo di vesti rigorosamente nere, rigorosamente uguali, Ronn Moss (sì, proprio Ridge Forrester di Beautiful, e vi assicuro che non ve lo domenticherete tanto facilmente): tutti dannatamente azzeccati, anche se, a dirla tutta, forse è proprio nella caratterizzazione e gestione di alcuni personaggi che è possibile ravvisare quello che, a mio avviso, è forse l’unico difetto del romanzo: una certa tendenza alla stereotipazione di alcune situazioni (penso soprattutto alla storia d’amore adolescenziale tra il ladruncolo Pisso e la bella figlia del sindaco corrotto) che stride, che riporta in basso, al già letto, al già sentito.

Ma è difetto veniale, su cui si può (anzi, si deve) passare sopra: Di Monopoli ha talento da vendere e lo vende molto bene. Se il buongiorno si vede dal mattino, ho idea che quest’anno la narrativa italiana mi riserverà delle belle sorprese.


L'incipit
Sàngu ti Giuda, e chi se lo scorda? Ancora ne parlano, mmienz' alla piazza gli anziani. Se tu alla sera esci e vai a sentire di che parlano, solo di quello parlano. Di quello e di lu governu maledetto, ca a noialtri povera gente ce lo mette sempre 'ngulo.


mercoledì 19 gennaio 2011

Energia nucleare: l'altro spot

È con grande piacere che ricevo e amplifico il segnale lanciato oggi da Omar di Monopoli su Sartoris, abo su Twitter e molti altri in rete riguardo allo spot di Greenpeace sull'energia nucleare.
Spot che, ovviamente, in tv non passerà mai.
Si sa, da quelle parti preferiscono queste pagliacciate di propaganda.

lunedì 17 gennaio 2011

Shane Stevens, Io ti troverò: la rat-censione

Shane Stevens
Io ti troverò
Titolo originale: By Reason of Insanity
Fazi Editore
798 pagine, € 19,50
ebook: non pervenuto


Tra il luglio e l’agosto del 1973 l’America assiste terrorizzata e impotente alla carneficina compiuta da Vincent Mungo, il più spietato serial killer che ne abbia mai calpestato il suolo. Evaso dal manicomio criminale dov’era rinchiuso da pochi mesi, Mungo attraversa gli Stati Uniti da una costa all'altra, da Los Angeles fino a New York, lasciandosi alle spalle i resti di cadaveri orribilmente mutilati. Le vittime, tutte giovani donne, vengono torturate, stuprate, fatte a pezzi con una furia sanguinaria senza eguali, che affonda le radici nel tragico passato dell’uomo. Il suo è un compito superiore, una missione: la donna è il Male, lui, il cacciatore di demoni, libererà il mondo dalla sua abominevole presenza.
Mentre la scia di sangue diviene giorno dopo giorno sempre più densa, l’opinione pubblica, sconvolta dalla mattanza, inizia a chiedersi perché nessuno riesca a fermarlo. Già: perché nessuno riesce a seguire le tracce di Mungo? Perché, nonostante le sue fotografie tappezzino ormai i muri di decine di città, nessuno lo ha mai avvistato? Perché la polizia, impegnata nella più estesa caccia all’uomo mai dispiegata sul suolo americano, non ha la più vaga idea di come prevedere la sua prossima mossa?
Semplice: perché l’uomo che si sta prendendo gioco di tutti loro, il più feroce serial killer della storia d’America, non è Vincent Mungo.


Ci sono tre cose che non mi sono piaciute di questo romanzo: la prima, nonché più grave di tutte, è l’imperdonabile ritardo con cui il capolavoro, sì, lo dico senza pudore, capolavoro di Shane Stevens è stato pubblicato in Italia. Sono passati più di trent’anni da quando By Reason of Insanity, con largo anticipo rispetto a riconosciuti caposaldi del genere come Il silenzio degli innocenti, Il collezionista di ossa o American Psycho, ha inaugurato il filone dei serial killer letterari negli Stati Uniti. Un plauso a Fazi per averci consegnato un romanzo di tale importanza, ma una dolorosa tirata d’orecchi a tutta l’editoria italiana per avercene privato per tutto questo tempo.
La seconda e la terza riguardano proprio l’edizione italiana: il titolo, Io ti troverò, è quanto di più banale si possa immaginare e non rende minimamente giustizia all’originale, ben più significativo; e la copertina è totalmente fuori contesto (vorrei che qualcuno mi spiegasse da dove viene l’idea della macchina, dato che non trova alcun riscontro nel romanzo).
E basta.

Io ti troverò è un viaggio nella follia di una mente tanto disturbata quanto lucida e implacabile: Stevens ci conduce per mano in un tortuoso e oscuro labirinto di perversioni mentali che si proiettano all’esterno in una carneficina senza pari. Ci mostra ciò che resta così come farebbe una guida turistica con le rovine dei fori imperiali. La scrittura si fonde con la cronaca, con i nudi fatti: non c’è alcun giudizio morale, nessuna presa di posizione ideologica. L’assoluta naturalezza con cui ci vengono presentati i dettagli più raccapriccianti ci spiazza, ci sbatte in faccia il fatto che stiamo per assistere a qualcosa di orribilmente vero, tangibile, reale. Leggete qui: dopo anni di cinghiate, sevizie, torture fisiche e umiliazioni psicologiche, anni trascorsi in “un mondo in cui la crudeltà imperversava, il dolore era la norma e la morte era una liberazione”, colui che terrorizzerà gli Stati Uniti uccide sua madre. Aveva dieci anni:

A settembre Sara comprò una frusta. Disse al negoziante che pensava di comprarsi un cavallo. Lui le disse che avrebbe dovuto acquistare prima il cavallo, ma Sara comprò solo la frusta.
Quell’anno l’inverno venne presto. Sara e il bambino rimasero quasi sempre a casa e nella grande stufa a legna il fuoco bruciava vivace. La sua mente spesso vagava: a volte non riconosceva il bambino, a volte lo chiamava con altri nomi […] Le frustate divennero più frequenti.
Poi, una sera di fine dicembre, la mente del bambino si spezzò. Mise sua madre, ancora cosciente, nella stufa a legna e rimase a guardarla bruciare. Osservò il suo corpo sfrigolare e bruciare sino a mostrare il bianco delle ossa.

Tre righe. In tre righe Stevens condensa l'orrore assoluto, posa la prima pietra di una costruzione che, dopo essere rimasta incompleta per molti anni, riprenderà a crescere a ritmo indiavolato dopo la fuga del killer dall’istituto psichiatrico.

Ma non è solo nell’ottima scrittura che risiede la grandezza del romanzo: è la struttura, il ritmo, la gestione dei temi dell’azione, delle pause, delle accelerazioni. La consapevolezza dell’insieme. Stevens dipinge pazientemente, pennellata dopo pennellata, un quadro complesso e affascinante, in cui il serial killer è solo una delle componenti. Sono molti i personaggi che popolano infatti il romanzo, ognuno dei quali è costruito con mano sicura e tratteggiato con grande cura per il dettaglio: a ciascuno di loro è affidato un ruolo ben preciso nella macchina narrativa, ingranaggi pazientemente oliati e messi a disposizione del lettore.

Ottima, davvero ottima la gestione dei piani narrativi e dei punti di vista: la viva e tangibile tridimensionalità dei personaggi, il loro costruirsi dialogo dopo dialogo, pagina dopo pagina, è lo schema di montaggio che ci viene offerto, così che ogni ingranaggio possa essere inserito al posto giusto, nel momento giusto. E così, oltre alla vicenda principale si dipanano quelle “secondarie”, sempre comunque funzionali all’economia del romanzo e punto di partenza per riflessioni su temi di grande rilevanza sociale e mediatica che in quegli anni accendevano gli animi della popolazione: su tutti il dibattito sulla pena di morte, inaugurato e cavalcato a seconda delle necessità in seguito all’esecuzione di Caryl Chessman, il famigerato (e realmente esistito) bandito della luce rossa, stupratore seriale per molti e vittima sacrificale per altri. Un'esecuzione che sarà la scintilla da cui tutto avrà inizio.

Tra spregiudicati politicanti assetati di potere, detective frustrati, giornalisti più o meno invischiati in affari sporchi ed ex detenuti più o meno redenti, nella seconda parte del romanzo emerge l’ingombrante figura di Adam Kenton, reporter investigativo assoldato dal Newstime per trovare l’assassino prima della polizia. È lui il secondo, grande polo magnetico attorno al quale tutto converge, l’alter ego del killer, il suo più spietato cacciatore e forse l’unico in grado di capirne la contorta e tormentata psiche. L’assoluta e maniacale dedizione con cui si dedica a una missione ritenuta dai più impossibile è seconda solo a quella che il Diavolo della California dedica alle sue vittime e al suo delirante piano di purificazione del mondo, specchio di una sete di potere che, in fin dei conti, è il motore di tutte le vicende che si intrecciano nel romanzo.

Ma, ovviamente, il mattatore è lui, Vincent Mungo, o, come solo noi sappiamo fin dall’inizio, Thomas Bishop. Raramente mi è capitato di incontrare un personaggio dotato di tanta potenza narrativa. Da qualche parte mi sembra di aver letto che Thomas Bishop è Hannibal Lecter come se fosse stato descritto da Truman Capote. Vi assicuro che è molto di più.


L’incipit
Le fiamme divorarono avidamente il corpo, consumando e dilaniando la carne e i muscoli. Sfaldata, poi annerita e carbonizzata, la pelle si disintegrò rapidamente. Braccia, gambe e torso si sarebbero presto ridotti a un mucchio di ossa sbiancate dalle fiamme. E, a tempo debito, la testa, privata dei tratti somatici, sarebbe divenuta simile a un teschio.
In silenzio, se non per quel gemito cantilenante che gli risaliva dal fondo della gola, il ragazzo, con gli occhi folli illuminati dal rosso bagliore delle fiamme, osservava il corpo che bruciava, bruciava, bruciava…

domenica 9 gennaio 2011

Appaloosa: la rat-censione

In seguito alla morte dello sceriffo Jack Bell, freddato insieme ai suoi vice da un fuorilegge locale, la cittadina di Apploosa è piombata nell'anarchia: sotto la costante minaccia delle armi, la popolazione assiste impotente alle angherie della banda di balordi capeggiata da Randall Bragg (Jeremy Irons) che, sbarazzatosi di Bell, spadroneggia nella zona a suo piacimento. Per ripristinare l’ordine il sindaco affida la città alle cure di Virgil Cole (Ed Harris) ed Everett Hitch (Viggo Mortensen), coppia di mercenari al soldo di chiunque abbia abbastanza denaro (e fegato) per mettersi al loro servizio. Il nome di Virgil Cole risuona nel deserto come il richiamo di un coyote affamato: la sua fulminea rapidità con la pistola e i suoi metodi poco ortodossi fanno già parte della leggenda del west. Ottenuta dal sindaco carta bianca per agire a suo piacimento, Virgil impone la sua legge su Appaloosa con l’obiettivo di consegnare Randall Bragg al patibolo. Ma quando in città arriva la bella Ellie Franch (Renée Zellweger) i suoi piani sono destinati a complicarsi.

Ho sempre avuto un rapporto di amore/odio con il western. Da un lato subisco l’abbagliante fascino del suo immaginario: gli spazi sconfinati, le polverose strade che li attraversano, la terra riarsa da un sole implacabile, una terra che si offre, dura e spigolosa come la pietra, ai pionieri, uomini di poche parole come la silenziosa prateria che li circonda. Il fascino della scoperta, del viaggio, dell’avamposto, dei duelli, di una sopravvivenza in bilico tra la legge dell’uomo e quella del deserto. Un mondo in cui ogni cosa va conquistata, battezzata, costruita. Dall’altro faccio fatica ad accettare l’ipertrofica ripetizione di topoi, situazioni, personaggi che troppo spesso si sovrappongono l’un l’altro, col risultato di andare a formare un’unica, grande sceneggiatura che, con qualche minima variazione sul tema, tende a ripetersi all’infinito.

Il film di Ed Harris, qui nella doppia veste di attore e regista, mi riconcilia col genere, e lo fa innestando su un impianto scenografico e narrativo molto classico (la banda di fuorilegge che spezza il fragile ordine di un avamposto nel selvaggio west e i giustizieri mercenari pronti a ripristinarlo) una singolare storia di amicizia tra due uomini la cui gelida imperturbabilità nasconde insospettabili turbamenti.

Virgil Cole è il classico “eroe western” tutto d’un pezzo, mente lucida e riflessi fulminei, l’incedere sicuro di chi sa di poter vincere ogni duello al primo sguardo. Eppure… eppure l’imperscrutabile Virgil Cole soffre di una forma di dislessia che lo costringe a chiedere l’aiuto del compare quando “non gli viene una parola”. Eppure Virgil Cole, incorruttibile sceriffo dagli occhi di ghiaccio, nasconde forse il desiderio di porre fine al suo eterno vagabondare e di accasarsi. Forse proprio qui, ad Appaloosa. Forse con Ellie, la pianista da poco giunta in città. Il suo desiderio è presto esaudito, troppo presto. Ellie si dimostra donna volubile, alla disperata ricerca di qualcuno che possa offrirle protezione fisica e sicurezza economica. Se sarà Virgil a poterle dare tutto ciò tanto meglio. Ma se arrivasse un altro gallo nel pollaio…

Assistiamo così al consolidamento della sua immagine di uomo di legge disposto a tutto pur di raggiungere l’obiettivo prefissato, ma anche al progressivo disgregarsi di qualche certezza, a repentini lampi di smarrimento in uno sguardo altrimenti imperscrutabile. E così Virgil Cole, ruvido sceriffo scolpito nella roccia del deserto, mostra il fianco al suo essere imperfetto, corruttibile, umano. E, come tale, bisognoso di affermare la propria individualità nel rapporto con un suo simile: Everett Hitch, ex soldato e inseparabile compagno di peregrinazioni, amico e confidente, consigliere e guardia del corpo.

Ed è proprio nel rapporto tra Virgil ed Everett che risiede gran parte della potenza del film, un western “moderno” che fa delle dinamiche sociali e personali più che del fascino della Frontiera le sue armi migliori. Beninteso, gli appassionati del western “classico” ritroveranno gran parte dei temi a loro cari: duelli, sparatorie, inseguimenti, risse da saloon, il sole che acceca lo sguardo e secca la pelle, la terra selvaggia che si perde all’orizzonte. Perfino indiani e messicani. Ma Harris stupisce: inserisce l’elemento di disturbo, apre qualche piccola crepa qua e là, mette in bocca ai protagonisti lo scambio di battute che non ti aspetti. 

Splendidi davvero i dialoghi, intrisi di pungente ironia e mai scontati, e altrettanto splendide le interpretazioni di un cast in forma smagliante (Harris e Mortensen ci regalano una coppia di personaggi che sarà ricordata a lungo), impreziosito dalla performance di una Renée Zellweger che si cala alla perfezione nella parte della donna apparentemente fragile, ma che sa perfettamente chi e cosa vuole, e come ottenerlo. Forse più “classica” la figura di Bragg nel suo essere villain a tutto tondo, ma Harris si diverte a giocare anche con lui, sparigliando le carte in tavola quando forse lo spettatore non se lo aspetta più.

Una regia pulita ed essenziale, ma non per questo emotivamente arida, e una fotografia di grande impatto completano il comparto tecnico di un film il cui risultato finale supera di gran lunga la somma delle sue parti: lunga vita al western.

sabato 8 gennaio 2011

Sony PRS-650: la rat-censione (una settimana da eReader, parte seconda)

La rat-censione del Cybook Opus è tuttora uno degli articoli più letti qui nella Tana. In generale, i miei post a tema eBook, editoria digitale & affini hanno portato al blog discreti picchi di visite: l’argomento “tira”, e a me, convinto sostenitore della “rivoluzione digitale” in ambito libresco, la cosa fa molto piacere, molto più piacere di qualche centinaio di click in più o in meno (che comunque servono a pompare un po’ di autostima nelle vene del mio ego, sempre bisognoso di rassicurazioni!).

Il Sony PRS-650 è il mio secondo eBook reader: per ovvi motivi non includo nella statistica l’iPad, in favore del quale avrei comunque più di una lancia da spezzare. Tuttavia, per motivi altrettanto ovvi l’esperienza di lettura su un tablet retroilluminato non è minimamente paragonabile a quella offerta da un reader con tecnologia eInk. Ma trattasi di trite banalità: sorvoliamo e vediamo di addentrarci in dettaglio nell’analisi dell’ultimo nato della casa di Tokyo.

Innanzitutto, perché questo lettore e non, che so, il nuovo Booken Orizon? Semplice: insieme al Kindle di Amazon, il PRS-650 (e il 350, suo fratellino minore) è l’unico eBook reader sul mercato dotato di schermo eInk Pearl. eInk Pearl significa maggiore contrasto, sfondo più bianco, caratteri più definiti: in sostanza, i nuovi schermi Pearl offrono un’esperienza di lettura ben più confortevole e simile a quella su carta rispetto ai “vecchi” Vizplex o, peggio ancora, ai nuovi SiPix (sfruttati per esempio dall’Orizon). Perché possiate farvi un’idea un po’ più precisa di quello di cui sto parlando, vi rimando a questo articolo apparso qualche settimana fa su eBookReader Italia.

eInk Pearl vs. SiPix vs Vizplex: and the winner is... c'è bisogno di dirlo?

Notate la differenza di contrasto e definizione tra un pannello Pearl
e uno SiPix: Bookeen, era meglio se ti tenevi i Vizplex!

Perché il PRS-650 e non il Kindle? Perché il Kindle è Amazon nel bene e nel male, e non ho proprio voglia di essere costretto a convertire ogni singolo ePub nel kindleformato, né di essere giocoforza legato a un singolo store: grazie, ci pensa già mamma Apple a farmi il lavaggio del cervello!

E infine: perché il 650 e non il 350? Perché leggere su uno schermo da 6” è meglio che farlo su uno da 5: parlo per esperienza personale. Soddisfatti? Bene, procediamo.

Il primo impatto con il reader è ottimo: rispetto al mio vecchio Opus, il PRS-650 si dimostra subito più solido e meglio rifinito. La scocca (nera, nel mio caso), concepita per offrire una presa salda e sicura anche con una mano sola, è robusta e compatta e ospita, sul lato superiore, il tasto di accensione, lo slot per la scheda SD e quello per il pennino. Sul lato inferiore troveremo invece l’attacco miniUSB, quello per gli auricolari e i tasti di regolazione del volume: il PRS-650 può svolgere infatti anche la funzione di lettore mp3. Completano il corredo “fisico” la classica pulsantiera presente su tutti i reader di mamma Sony e uno schermo da 6” sorprendentemente bianco.

Come già detto in precedenza, all’accensione si nota immediatamente la qualità superiore del pannello Pearl e l’assenza del peggior difetto dei vecchi schermi Sony, quel fastidiosissimo effetto riflettente (colpa di una pessima implementazione della tecnologia touchscreen) che rendeva molto difficoltosa la lettura sotto luce diretta. Difetto che, fortunatamente, è stato completamente corretto nei reader di ultima generazione.

L'homepage del PRS-650
Il menu è semplice e intuitivo, nella miglior tradizione della casa giapponese: diviso in tre sezioni principali (Home, Applicazioni e Impostazioni), permette un rapido accesso a tutte le funzioni principali (tra le quali l’utilissima possibilità di consultare tutte le nostre annotazioni direttamente dall’homepage, senza dover scartabellare tra i menu). Tra le applicazioni, oltre al già citato lettore mp3, sono presenti anche un visualizzatore di immagini (ovviamente in scala di grigi), un programma di scrittura manuale tramite pennino e un ottimo sistema di dizionari (ne sono presenti 11), che si integra ovviamente con gli eBook.

Ma passiamo all’esperienza di lettura vera e propria, che poi è l’unica cosa che ci interessa davvero. Come si legge sul PRS-650? Bene, anzi, benissimo: non solo grazie al pannello Pearl, di cui non smetterò mai di tessere le lodi, ma anche grazie a un touchscreen sorprendentemente reattivo, sia tramite pennino sia tramite dito. Il refresh dello schermo non è ancora ottimale, ma si tratta sicuramente di un passo avanti rispetto ai reader di vecchia generazione da me visti all’opera. Le pagine possono essere girate sita tramite gli appositi pulsanti situati al di sotto dello schermo, sia “sfogliando” con il dito. Ovvio, non essendo un pannello multitouch l’esperienza è ben diversa da quella offerta da iPad, ma si tratta comunque di una comodità in più che non fa mai male, anzi.

Cliccando due volte su un termine si aprirà automaticamente un’anteprima della definizione tratta dal dizionario preselezionato (ma è possibile cambiarlo in corsa): cliccando poi sul pulsante del dizionario si aprirà la pagina intera, con la dfinizione estesa. È inoltre possibile cercare altre occorrenze di quel termine all’interno del testo o creare una nota veloce, sia scrivendo a mano col pennino sia attivando una tastiera virtuale (non molto reattiva a dir la verità).

Premendo il tasto “options” si accede poi a tutta una serie di funzioni complementari, dall’aggiunta di segnalibri alla gestione e consultazione delle note prese in precedenza (o alla creazione di nuove annotazioni), dall’accesso all’indice e alla cronologia delle pagine visitate alla regolazione del contrasto e delle definizione del testo. Come tutti i principali reader sul mercato (o almeno credo), il PRS-650 offre inoltre la possibilità di leggere in landscape mode.

Il tasto + è invece deputato alla scelta della dimensione del carattere (ma la differenza tra “Small” e “Medium” è troppo marcata, un aggiornamento firmware sarebbe cosa gradita), allo zoom della pagina e ad altre opzioni di visualizzazione. Non è possibile invece modificare il font (il reader visualizzerà automaticamente quello embeddato nel file) né l’interlinea, utile opzione offerta invece dal Kindle.

In definitiva il PRS-650 è un ottimo prodotto, forse il miglior eRader attualmente sul mercato: se siete in procinto di gettarvi a capofitto nel magico mondo dell’eBook e avete 250 euro da spendere (ai quali ne vanno aggiunti altri 30 se vorrete dotare il vostro pargolo di una custodia degna, dato che in dotazione non ce n’è nemmeno una in cartapesta), andate a botta sicura, non ve ne pentirete. Se invece il vostro budget è più limitato, allora vi consiglio il Kindle: vero, c’è qualche sbattimento in più da fare, ma il rapporto qualità/prezzo che offre è al momento senza eguali.



Ah, dimenticavo: fatta eccezione per il PRS-950, disponibile solo sul mercato americano, come tutti i reader Sony nemmeno il PRS-650 è dotato di connessione wireless, tantomeno di 3G. Personalmente la cosa non mi disturba affatto: navigare su uno schermo eInk è follia pura, e la possibilità di poter acquistare gli eBook direttamente dal lettore è un optional di secondaria importanza.

giovedì 6 gennaio 2011

dotEPUB

Breve post per segnalarvi un'utilissima applicazione: sono sicuro che molti di voi la conoscono già, ma non si sa mai.
L'app in questione si chiama dotEPUB e il suo funzionamento è semplicissimo: basta un semplice clic e la pagina web attualmente aperta sul vostro browser (l'estensione terrà conto solo del corpo di testo principale) verrà convertita in un file .epub, così da poter essere consultata in un secondo momento su un qualsiasi reader.
Utilissima per leggere articoli o post particolarmente lunghi senza cavarsi gli occhi davanti al monitor, l'applicazione può essere installata in 3 diverse modalità:
  • Bookmarklet per browser: basta trascinare il logo dotEPUB presente nell'header della pagina ufficiale direttamente nella barra dei preferiti del vostro browser. Quando vorrete salvare un contenuto in un file .epub basterà cliccare sul bookmark e il gioco è fatto. Di seguito un piccolo video dimostrativo.
  • Estensione per Google Chrome, installabile direttamente da questa pagina del Chrome Web Store.
  • Widget per pagine web: sul sito di dotEPUB è possibile "prelevare" il codice direttamente dal sito di dotEPUB.